Teatro

SALISBURGO, LA DONNA SENZ'OMBRA

SALISBURGO, LA DONNA SENZ'OMBRA

Salzburg, Grosses Festspielhaus, “Die Frau ohne Schatten” di Richard Strauss

LA “DONNA” IN SALA DI REGISTRAZIONE 

La donna senz’ombra di Richard Strauss è una favola, ma così complicata per  implicazioni simboliche,  reconditi significati, stratificazione di leggende slave, germaniche e orientali, nonché un linguaggio così “alto” da risultare anacronistico, da porre in sede teatrale diversi problemi. Forse per lo spettatore moderno sono auspicabili nuove chiavi di letture che in qualche modo prendano le distanze dalle visionarie fantasie di Hofmmanstahl e Strauss e dal loro mondo incantato. E’ quanto persegue Christof Loy, regista della nuova produzione in scena a Salisburgo, accolta alla prima con dissenso, che rinuncia a priori alla componente fiabesca e simbolica, concentrandosi  sugli aspetti umani e psicologici e adottando un espediente metateatrale che, seppur estraneo alla Frau ohne Schatten, è per certi versi fedele a un'estetica straussiana a cui è caro il meccanismo di teatro nel teatro.

Il regista tedesco immagina che tutto si svolga in uno studio di registrazione: la Sofiensӓle, storica  sala  viennese bruciata nel 2001, dove  i  vari cantanti sono impegnati nella registrazione dell’opera.
Loy prende spunto da un fatto di cronaca, ovvero la prima incisione della Frau ohne Schatten da parte di Karl  Böhm (direttore a cui va riconosciuto il merito di aver contribuito in modo decisivo alla divulgazione  del capolavoro straussiano) quando  “costrinse” nell’inverno del 1955  i cantanti che avevano interpretato con successo  l’opera alla Staatsoper alla sua registrazione.

La scena unica di Johannes Leiacker ricrea l’interno della Sofiensӓle e la sua elegante architettura ottocentesca disposta su due livelli con gallerie e arcate. Il cuore dell’azione scenica è una pedana dove sono disposti  leggii, microfoni e sedie, mentre le zone adiacenti, disimpegni e corridoi, sono dedicate ai momenti di pausa e vita quotidiana dei cantanti. Inservienti discreti, impiegati ed operatori contribuiscono ad accentuare con modi dimessi e sguardi tristi un’atmosfera da primo dopoguerra, dove il trauma del terzo Reich non sembra ancora superato e  fra gli  androni della sala (che, come ricorda Loy,  servirono come luogo di raccolta per la deportazione degli ebrei)  aleggia un triste ricordo.

Die Kaiserin è una cantante agli esordi, timida e riservata, che si deve confrontare, oltre che con le difficoltà della parte, con dei  “mostri sacri” della lirica. Protagonista assoluta, è  sempre in scena, sulla pedana o nell’ombra del corridoio, a osservare un mondo a cui vorrebbe tendere, ma di cui non si sente parte e il suo non avere ombra (la fama) traduce l’impossibilità di una giusta collocazione.
In un livello metateatrale ulteriore sembrerebbe che ciò che “succede” (le fasi di registrazione e la vita reale) non siano altro che sue proiezioni, sogni o ricordi, un espediente di regia  per risolvere il difficile status di un personaggio che assomma in sé diverse nature.
Nell’impostazione ipercerebrale di Loy (affascinante, ma di non immediata  comprensione)  i cantanti interpretano di volta in volta loro stessi o i personaggi e non sempre è evidente, nonostante alcuni indicatori come la luce rossa accesa in modalità REC o il maestro ripetitore che segue lo spartito, stabilire una linea di demarcazione fra la registrazione e la vita e proprio. Ma in questo sta il fascino dello spettacolo:  in quanto dà allo spettatore la facoltà di creare, a partire dal complesso quanto astratto capolavoro di Hofmannstahl, una propria storia, quasi fosse un  “nouveau roman”. E tutto torna.

La Frau e Barak sono una coppia di cantanti in crisi, forzatamente impegnati a condividere la registrazione per ragioni di contratto, in un altalenarsi di sentimenti repressi e problemi irrisolti che sembrano esplodere nel confronto con la partitura, di cui d’altro canto, da professionisti consumati, sfruttano ogni potenzialità testuale e musicale per mandarsi messaggi privati.
Il Kaiser è un tenore famoso quanto fragile, attorniato da uno stuolo di agenti ed impresari che lo sfruttano con la scusa di sostenerlo e a cui la Kaiserin fra una pausa e l’altra fa pervenire fra i fogli dello spartito ingenue dichiarazioni d’amore.
Il finale è  spiazzante: la sala da concerto parata a festa con un tripudio di bandiere asburgiche e un gigantesco albero di Natale  ospita  un concerto  tenuto dalle due coppie e un coro di voci bianche (eccoli i bimbi non nati!)  di fronte a un pubblico che batte le mani al ralenti assecondando l’onda musicale straussiana, quadro ironico e amaro di una celebrazione da regime. Die Kaiserin ha trovato la sua ombra,  come sembrerebbero indicare i baciamani dei numerosi ammiratori... o forse è stato solo il sogno di un melomane nostalgico, incallito cultore della Rysanek.

Nel cast si distingue la Frau di  Evelyn Herlitzius, dalla voce potente e al tempo stesso ben modulata capace di rendere l’intensità del personaggio e ogni sua sfumatura. Anne Schwanewilms è una Kaiserin riservata e sensibile, la voce ha un bel registro centrale ma qualche limite nel settore acuto ed il momento più intenso è il suo monologo in cui nel buio della sala passa dal canto a un parlato drammatico. Bene la nutrice di Michaela Schuster, più arrogante che luciferina, assolutamente  riconoscibile nei panni della cantante affermata che trama di tutto pur di non perdere l’egemonia. Wolfgang Koch è un Barak triste e dolente,  cantante di mezz’età in crisi esistenziale, dalla voce morbida e pastosa. Nel ruolo del Kaiser Stephen Gould interpreta bene lo stereotipo del tenore, ma la voce, oltre a difettare in estensione, è povera di  colori.
Molto bene Rachel Frenkel (la voce del Falco). Fra gli altri ricordiamo Thomas Johannes Mayer (il messaggero) e i tre fratelli del tintore, rispettivamente Markus Brück (l’orbo), Steven Humes (il monco), Andreas Conrad (il gobbo).

Perfetta e coinvolgente  la direzione di Christian Thielemann, di casa a Bayreuth ma per la prima volta a Salisburgo, che dimostra , alla guida di un’orchestra che ha Strauss nel DNA, di avere assimilato (nonché superato in virtù di una sensibiità moderna) la lezione  di Karl Böhm. In sintonia con il “dramma da camera” di Loy, Thielemann scava in ogni dettaglio della partitura mettendone in evidenza la componente cameristica con un suono di cristallina e analitica purezza, che si fa poi morbido e avvolgente per i maestosi  climax sonori  che sgorgano con  naturale flessibilità e sorprendente dolcezza, densi e  spessi  come un magma sonoro che si plasma sulla situazione drammatica, potente ma mai troppo forte, capace di ritirarsi con la rapidità di un’onda a un passo dall’esplosione. Una direzione musicale che non teme confronti  che i Wiener stessi insieme a un pubblico in delirio applaudono con straordinario entusiasmo.

Teatro esaurito. Una sola la speranza: che  sia stata registrata davvero.

Visto a Salzburg, Grosses Festspielhaus, l'1 agosto 2011

Ilaria Bellini